giovedì 3 agosto 2023

Come cambia un paese

Come cambia un paese.

Se vogliamo vedere come é cambia la nostra cittadina, Linguaglossa, forse dobbiamo spostarci ai quattro canti, crocevia pulsante del paese, luogo ricercato d’incontri, termometro economico dello sviluppo cittadino. Un tempo non molto lontano quando le auto erano rare, appannaggio dei più abbienti, la sosta dei cittadini, nelle giornate festive, avveniva al centro della strada. Al passaggio delle poche auto la gente si scostava più per cortesia, che per obbligo, non risparmiando sguardi di sdegno al “disturbatore” di turno. Era l’epoca in cui in quegli assembramenti si discuteva di lavoro e seconda della stagione si parlava ‘du mali a gialla o da niura’, di cuffari, conzu, ritagghiu, acquatina, putatura, scatinu, spiddira, rifunniri e zappuneddu, scausa e passari ‘i cetta.Vocaboli che il contadino siciliano masticava giorno e notte, sognando pani niuru di “irmana”. La crisi vinicola era alle porte, e con essa il desiderio di cercare lavoro altrove: Svizzera, Germania, Argentina Venezuela, Australia. Incominciava lo spopolamento del paese. Declino o desiderio di riscatto? Intanto le auto aumentavano e la gente, sempre più poca, che prima sostava al centro della strada, cercava rifugio agli angoli dei quattro canti, arrecando compiaciuto imbarazzo alle donne che, con  o senza carrozzina, dovevano districarsi tra chi lì oziosamente indugiava. Qualcosa però stava mutando, Quei nostri padri che nei giorni di festa, ai quattro canti, indossavano l’abito della domenica, parlando solo di lavoro e fatica, poco alla volta lasciavano il posto ai figli, con i capelli da hippy e i pantaloni a zampa di elefante. Era l’epoca in cui si parlava di diritti, mai di doveri, anticamera di quello sfacelo, che nell’arco di un decennio sarebbe avvenuto. Era anche l’epoca della sana socializzazione, che presto si sarebbe trasformata in egoistico individualismo e in assenza di valori e sentimenti. Oggi ai quattro canti oziano, con la gamba piegata, poggiata alla scolorita parete, poche sparute anime, tristi e pensierose, eredi di un mondo scomparso, in cerca di parole che non trovano e quando le trovano sono lamenti dolorosi, tristi litanie di disperazione, come disperato è chi cerca lavoro e non lo trova. La decadenza è palpabile oltre che negli animi, anche nelle cose. Non sono più visibili uomini in sosta e persino le botteghe, stanche di aspettare hanno chiuso i battenti. Una stretta al cuore quei palazzi, che sembrano fortezze dopo il massacro di Fort apache, abbandonati a causa di un’economa in coma. Il paese rimpiange quei calorosi assembramenti e la forza di quegli uomini che, dopo una giornata di fatica. facevano ritorno alla propria dimora, fischiettando canzoni d’amore, mentre a casa il fuoco dei fornelli avvampava e sopra un’annerita pentola piena di speranza. Oggi non canta più nessun per le strade, come se l’uomo abbia perduto le corde vocali e la tristezza gli abbia soffocato l’anima. Oggi siamo divorati dall’attesa. Ritorna ad aleggiare nelle nostre menti l’atavica pazienza dei contadini, quel desidero o anelito a che le cose cambino, per rimanere sempre le stesse o talvolta mutarsi in peggio, com’è questa realtà che ci ha privato della spensieratezza, sia pure sofferta, ma felice di una volta.

 

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