venerdì 2 marzo 2012

Un ricordo del nostro amato arciprete parroco

Quando un vicino di casa muore, sono brandelli di vita, tessere di un mosaico costruite assieme che la morte si porta via. Quest’oggi a Linguaglossa è toccato a un vicino di casa “speciale”, Don Vincenzo, emerito arciprete-parroco “tuttofare”, perché Don Vincenzo, da solo, nel suo ministero, abbracciava quasi tutte le chiese del paese. Si diceva che avesse il dono dell’ubiquità, perché dopo averlo lasciato a celebrare nella Chiesa Madre, lo ritrovavi nel Centro Sociale, che fortissimamente volle come centro di aggregazione giovanile, o nella Chiesa di San. Francesco o dell’Annunziata, assieme alle sue parrocchiane per promuovere iniziative sociali o di carità, una virtù teologale, questa, di cui Don Vincenzo era apostolo di fede. La sua casa, a piano terra, francescana nell’arredamento, lo era anche nell’accoglienza di quei molti che quotidianamente bussavano alla sua porta in cerca di un obolo che generosamente donava, camuffandolo con una stretta di mano. Quelle poche volte che mi è capitato di “toccare”, come vicino di casa, la sua carità con mano, i nostri sguardi s’incrociavano in un imbarazzato silenzio, perché Don Vincenzo non gradiva si scoprisse il suo animo samaritano. Lo conobbi, io giovinetto, per la prima volta, a casa sua, dove mi ero recato per farmi aiutare nell’elaborazione di un tema di religione che il mio insegnante, Padre Bottino, domenicano, mi aveva assegnato come compito a casa. A quattordici anni da buon cristiano gli unici elementi di religione a me noti erano “u ruzzuleddu" e "u stuffu” con i quali trascorrevo la giornata dopo lo studio. La teologia era materia di preti e Don Vincenzo, giovane prete, andava al caso mio. Il tema, com’è ovvio, lo scrisse Don Vincenzo da capo a piedi e quando il mio insegnante lo lesse, dandomi una pacca sulla spalla mi disse: “ Se lo hai fatto interamente tu, sento che la tua vocazione sarà quella di fare il prete”. Per qualche giorno ci pensai pure. Poi a distogliermi da quell’idea ci pensarono “u ruzzuleddu e u stuffu”. E meno male, mi sarebbe toccato di fare lo spretato. Solo Don Vincenzo, il nostro amato arciprete-parroco poteva fare il prete. Lui c’era nato. Chissà se da Lassù, leggendo questo mio scritto, si ricordi di quel nostro lontano incontro e mi regali un sorriso. Saro Pafumi

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