giovedì 8 settembre 2011

Quando con poco grano seminato si sfamava la famiglia


Don Carru “malaspisa”, da suoi genitori aveva ereditato solo lo scomodo di fargli i funerali, “poviru ‘ncanna” era. Quelle due o tre salme di terreno che possedeva se l’era dovute sudare per averle in gabella da un signorotto del paese che, cu travagghiu di don Carru, ci mangiava anche lui. Quel terreno solo lui se l’era potuto caricare in groppa: argilloso e collinoso, com’era, non faceva gola a nessuno. Don Carru, però, che il cervello fino del padre aveva ereditato, quello sì, aveva capito che con quelle poche salme ci poteva sfamare l’intera famiglia, coltivandole a grano. In un’epoca in cui per acquistare un chilogrammo di pane bisognava piegare la schiena dall’alba “a basciura” fino a morirci di stanchezza, la fatica non consentiva di raccontarla agli altri, perché a sera di fiato rimaneva solo quello per respirare. Don Carru trascorreva la sua vita tra aratura, semina e mietitura e quando “ a gialla” o “ a niura” non gli distruggevano il raccolto poteva finalmente raccogliere quello che il suo sudore aveva seminato. La fatica di don Carru non finiva con la semina, “ u lueri” doveva pagare e con gli uccelli, quando il grano s’indorava, era giornalmente in guerra, dall’alba al tramonto, perché oltre a don Carru erano in troppi ad avere fame: la moglie, gli otto figli e migliaia di uccelli che quel grano volevano più e meglio di don Carru che l’aveva seminato. Passiri, cardiddi, virduni, carannuli un incubo per don Carru. Col campanaccio in mano e sotto un sole che gli arrostiva la pelle e gli cuoceva i polmoni don Carru se ne stava accovacciato, nascosto tra le spighe, a scampanare di continuo , accompagnando il frastuono con un grugnire stridulo come di maiale in procinto d’ essere scannato, più che per dissuadere gli uccelli, per implorarli, ché figli aveva anche lui da sfamare. Poi a sera quando gli uccelli avevano, per stanchezza o pietà, smesso di rubargli quel po’ di grano, don Carru abbandonava i panni del campanaro e si affidava agli spaventapasseri che sparsi in lungo in largo in mezzo al campo, vestiti dei suoi panni a don Carru in croce somigliavano. Quando la luna si affacciava, sorniona, tra i rami di un’alta quercia, arrostito dal sole, don Carru, In groppa al suo asino, anch’esso stordito dal monotono, sordo scampanare faceva ritorno a casa, ma col pensiero rimaneva accovacciato in mezzo alle sue spighe, che la mattina successiva contava una a una, come i sospiri che mandava al Cielo tutte le volte che un uccello cacciava dal suo grano. Saro Pafumi

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