venerdì 24 giugno 2011

Vite arate dalla fatica


“U fazzulettu” legato dietro la nuca, “ u fantali” annodato ai fianchi, sopra una gonna lunga fino alle caviglie, il costume con cui vestivano le giornaliere di campagna, che, un tempo, le mani avevano callose più degli uomini. Così ’nfrasciamate” si recavano quotidianamente al lavoro nei campi, sacrificando alla fatica la loro femminilità, che solo ai mariti riservavano, nei rari momenti di riposo, tra le disadorne mura domestiche, tinte a calce. Già allora, u travagghiu” nei campi le aveva parificate agli uomini, perché quando si lavora “di mani” la fatica non conosce sesso e condizione. Donnapeppa, a ‘Ngnurangiula, Cummarirosa, giornaliere di campagna, ma anche mogli e madri, vite arate dalla fatica, avevano lo zolfo nei polmoni, quello che il controvento non riusciva a smaltire, e gli occhi rosso fuoco, quando, a sera, avevano finito di “’nzolfare” il vigneto. Quando, nella penombra della sera, dalla cisterna il secchio risaliva a fatica trascinato da una carrucola arrugginita e cigolante, era il segnale che la giornata era finita. A circolo, sul collo del pozzo, si snodavano queste donne-uomo “u fazzulettu” intorno al capo intriso di sudore, polvere e zolfo e sparsa la loro chioma al vento, come criniera di cavallo, si sciacquavano il viso, più per rinfrescarsi che per pulirsi, perché la polvere, quella, era finita in fondo all’anima. Dietro un muro di pietra a secco, lontane dagli occhi indiscreti dei compagni di lavoro, anch’essi “cu muccaturi” in testa a quattro nodi, si ricomponevano le vesti, aggiustandosi le brache, ché anch’esse s’erano appesantite dalla stanchezza. Poi, incamminandosi per tortuosi sentieri pietrosi ripercorrevano a ritroso, con un fascio di legna in testa, il lungo tragitto che le conduceva a casa. Qui la fatica ricominciava, perché tra un’impastata di pane e la biancheria messa a mollo per l’alba successiva, il giorno pareva non avesse fine. Anche le parole, quelle che in genere si scambiano marito e moglie nella fase di riposo, stentavano ad uscire, ché per la fatica e l’impegno s’erano asserragliate in bocca, come se quel poco fiato rimasto fosse da risparmiare. Un frugale pasto consumato attorno “a buffetta” rischiarata da una lampada di 15 watt era il regalo del giorno: “U cuzzagnu” del pane, tagliato col coltello “a roncola”, spettava al padrone di casa e qualche cipolla rimediata in campagna era, assieme al poco pane, il companatico per loro e i figli. Quando, d’inverno, lo zufolare del vento nevoso s’incuneava tra le fessure dei coppi, un fascio di “ sciarmenta” tratto dalla limitrofa stalla “avvampava” la stanza e anneriva il bianco della calce, ma portava il dono del calore, quel calore che nella breve notte, sul giaciglio nuziale, le membra affaticate dei padroni di casa cercavano, intrecciandosi in fremiti d’amore, solo quando una mezza dozzina di loro “cuccioli” stanca di fame e con i panni ancora addosso precipitava nel sonno. Pubblicata su La Sicilia il 28.06.2011 Saro Pafumi

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