venerdì 30 aprile 2010

La pazienza, una dote che abbiamo in abbondanza

Il termine “paziente” dal greco “pathos”, significa dolore ed è usato in medicina per indicare chi soffre, chi sopporta, chi tollera, nel significato più ampio chi è in cura da un dottore.
Oggi il termine dovrebbe travalicare gli stretti confini della medicina per abbracciare tutti gli accadimenti del mondo reale. La sofferenza non riguarda più esclusivamente il mondo del dolore, ma è pane quotidiano.
Come si potrebbe definire chi sta in coda per ore alle Poste, il pendolare costretto a viaggiare quotidianamente in piedi o stipato come un’acciuga, chi chiede che un suo diritto sia riconosciuto, chi è in attesa di un rimborso o della definizione di una pratica, chi cerca un lavoro o semplicemente un parcheggio? Paziente, appunto. La pazienza è la dote che ci accomuna, il segno che ci contraddistingue, la qualità che ci caratterizza. Il meridione ne ha così tanta da poterla esportare. La mattina, quando si esce da casa, occorre avere le tasche piene di pazienza: l’impiegato contro l’utente insolente; l’utente contro l’impiegato scortese;
l’automobilista contro chi sorpassa a sinistra o chi aziona il clacson, perché chi lo precede anticipi la partenza al semaforo.
Meno male che qualche buontempone utilizza il, termine “pazienza” per ricamarci sopra qualche battuta a doppio senso, come su quell’avviso affisso in un ambulatorio medico dove si poteva leggere: “ Il dottore riceve “i pazienti” solo la mattina” sul quale qualcuno aveva aggiunto a mano: “I nervosi”, subito” o quella più umoristica e dissacrante leggibile su un necrologio cittadino: “ E’ deceduto oggi…il sig…………………. padre premuroso e marito paziente”. Qualcuno aveva con un segno di matita depennato “paziente” disegnandoci sopra un pugno chiuso con l’indice e il mignolo in posizione verticale ( fortunatamente con l’aggiunta del punto interrogativo).
La pazienza è o dovrebbe essere la dote dei forti, proverbiale quella dei contadini, ma guai a possederla in dosi esagerate, perchè si sconfina nella rassegnazione, che è l’anticamera dell’umiliazione, quella con cui si convive tutti i giorni, supplicando che ci sia riconosciuto quanto ci spetta, sia come individui, che come collettività.
Pubblicata su La Sicilia il 30.04.2010 Saro Pafumi

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