lunedì 9 luglio 2012

Quando la fame era una tragedia diffusa anche ubriacarsi aveva un altro senso

Finta la seconda guerra mondiale le condizioni degli  italiani, a partire da quelle psicologiche, per finire a quelle economiche erano tutte da ricostruire. In Sicilia, rispetto alla restante parte del Paese le cose andavano peggio. La fame in certe famiglia sfiorava la tragedia: il fuoco con legna rimediate chissà dove, in mezzo a due pietre, con sopra una pentola annerita dal fumo, era il focolare di casa. Dentro la pentola  l’acqua bolliva nervosamente in attesa che qualcuno dei familiari rimediasse da qualche anima caritatevole un po’ di pasta che “squatata” alleviava la fame dei “commensali”. Il resto del cibo si rimediava nelle campagne, dove i frutti erano strappati a forza da carovane di affamati, incuranti se a sera la sciolta o la stitichezza li avrebbe aggrediti.  I’ importante  era lenire i morsi della fame che il volto scarno e pallido di quei disgraziati aveva. Le bettole fin dal tardo pomeriggio si riempivano di bevitori che nel vino affogavano amarezza, delusione e povertà. Era il vino per costoro l’elisir di lunga vita, perché almeno per qualche ora il disagio esistenziale era cancellato. Nella bettola di don Austinu “coddu curtu” il nettare degli dei” era somministrato in dosi massicce, ma man mano che il fumo dell’alcol annebbiava vista e pensieri, la qualità ne risentiva, fino a diventare aceto puro che aveva il prodigioso effetto di far digerire lupini, cacucciuliddi, calia e persino le pietre. Uscire a sera inoltrata dalle bettole sotto l’effetto dei fumi dell’alcol per rientrare a casa era come procedere con la benda su gli occhi, barcollando come l’albero maestro di una nave in tempesta. I pochi fortunati che vi riuscivano non avevano la forza di bussare alla porta di casa che di solito la padrona apriva a notte inoltrata sicura di trovare dietro l’uscio non il proprio marito, ma un fagotto di cenci fradici di vino. Oggi le cose sono notevolmente cambiate. Alla magrezza necessitata d’un tempo l’obesità opulenta di oggi, entrambi con un comune denominatore: l’insoddisfazione dell’essere; all’ubriachezza  inoffensiva d’allora, l’ebbrezza effimera, auto lesiva di oggi,  al fagotto di cenci vinosi d’un tempo, i resti mortali imprigionati in un auto accartocciata dove a raccoglierli non c’è la premurosa moglie d’un tempo,  né la straziata mamma di oggi, ma una pattuglia di Vigili del fuoco intenti con  la fiamma ossidrica ad estrarre corpi lacerati che  “il nettare del diavolo” ha reso tali. E’ cambiato il modo di bere, ma, forse, anche quello di morire, entrambi accomunati dallo stesso sogno: il desiderio di volare senza ali.
Pubblicata su La Sicilia il 10.07.2012. Saro Pafumi

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