lunedì 16 agosto 2010

LINGUAGLOSSA - SAN ROCCO, FESTA E TRADIZIONI



La festa di San. Rocco, che si celebra in questi giorni a Linguaglossa, affonda le sue radici in epoche lontane ed è legata ad una serie di manifestazioni popolaresche Almeno quattro quelle che accompagnavano fino a non molto tempo fa la ricorrenza: l’asta; ‘a chianata a ‘ntinna; a scassata ‘e catusi; a merca o iaddu.
Di queste quattro “rappresentazioni” solo la prima resiste e consiste nel vendere al migliore offerente, attraverso un abile banditore, la mercanzia offerta dai devoti: una cesta di pomodori, un agnello, una forma di formaggio. o altro il cui ricavato era ed è devoluto a festeggiare il Santo. “A chianata a ‘ntinna” è caduta in disuso. Consisteva nell’innalzare in piazza San. Rocco un palo alto circa 10 metri, cosparso di grasso animale e succo di pale di ficodindia, usato come lubrificante, che, reso viscido e scivoloso, doveva rendere faticoso l’arrampicarvisi. Alla sommità ben visibili penzolavano generi alimentari d’ogni tipo.
La terza rappresentazione “ a scassata ‘e catusi” è resistita fino a poco tempo, Da una fune magistralmente azionata da un abile manovratore “ pendeva “u catusu” (un coccio d’argilla) che oscillava ad un’altezza di tre/quattro metri dal suolo. Sotto il coccio penzolante, un gruppo d’uomini strettamente avvinghiati e sopra di loro, in equilibrio precario, chi doveva “scassare u catusu che gli oscillava sulla testa. Rotto il coccio, dopo vari tentativi tra le risate del pubblico, la sorpresa: terra rossa, nero fumo o qualche modesto regalo che doveva spartirsi tra i contendenti. Molta fatica, poca sostanza e tanto divertimelo del pubblico che seguiva la tenzone con tifo da stadio. La quarta rappresentazione “ a merca o iaddu” conteneva in sé una carica di sadismo che la civiltà ha spazzato via dalla tradizione popolare. Un gallo vivo, penzolante e dondolante a testa giù, doveva essere centrato dal contendente di turno a colpi di pietre acquistate due soldi l’una. Chi riusciva a centrarlo, da una distanza di 30 metri, se lo aggiudicava. In questo tiro a bersaglio la facevano da padroni pecorai e caprai che con il lancio delle pietre avevano una naturale dimestichezza.
A queste rappresentazioni popolari si aggiungeva il sedici d’agosto l’usanza dei fratelli Cavallaro, detti “ i munti”di cucinare “ u crastu o fornu”, una vera leccornia che solo la loro maestria rendeva prelibata.
La semplice e stringata descrizione di queste antiche rappresentazioni ha lo scopo di far conoscere che esse erano in gran parte, con esclusione di una sparuta minoranza che partecipava ai giochi con spirito goliardico, prerogativa dei più disagiati. Tradizioni andate perdute, nonostante volessero o potessero apparire come manifestazioni semplicemente ludiche.
Chi partecipava a queste competizioni, sacrificando pudore e dignità, molto spesso era spinto da condizioni economiche precarie e con la speranza di accaparrarsi derrate alimentari altrimenti relegate nel mondo dei sogni. Uno spettacolo che doveva divertire il pubblico, ricevendo il contendente, a volte, sprezzante derisione.
Quanti hanno nostalgia di queste tradizioni perdute, si consolino con la fede, perché il vero miracolo di San Rocco è l’avere spazzato via queste rappresentazioni che nell’indigenza trovavano origine e ispirazione. Le tradizioni vanno conservate o in certi casi, se possibile, rivisitate come “recite” esclusivamente “burlesche”, ma quando offendono la dignità umana, nonostante ogni contraria apparenza, è sciocco averne nostalgia.
Pubblicato su La Sicilia il 17.08.2010
. Saro Pafumi

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